Saturday, November 05, 2005




Sunday, October 16, 2005


Intervista ai Pelican
(Punkster, ?)


I Pelican vengono da una città che ha una tradizione di musica indipendente impeccabile: Chicago. Dagli Smashing Pumpkins agli Alkaline Trio, dai Dwarves ai Joan Of Arc, dai For Carnation agli Isotope 217 per arrivare ai Tortoise, alla Touch & Go e a Steve Albini. Una città contraddistinta insomma da una fervente comunità “alternativa”, che con i Pelican riesce finalmente a finire anche sulle mappe del post hardcore. Australasia è un'esperienza d'ascolto che deriva evidentemente da differenti materie musicali lasciate a interagire: dal post rock al metal, dalla psichedelia all'hardcore, sono molteplici i riferimenti che è possibile trovare all'interno del gruppo, che però può già vantare, benchè giovanissimo, una personalità solida e delle capacità “esplorative” di prima qualità. Il nostro interlocutore è il batterista Larry Herveg, e cominciamo a bruciapelo: qual è lo scopo dei Pelican? “Miriamo a creare qualcosa di unico e imprevedibile, amiamo molto la musica e vogliamo cercare di creare qualcosa di fresco e diverso. Non siamo certo l'unico gruppo strumentale del mondo, ma crediamo di avere un suono che possiamo definire nostro. Vogliamo che i pezzi vengano progettati come un viaggio, come qualcosa all'interno del quale l'ascoltatore possa perdersi. Qualcosa che sia pesante, ma che allo stesso tempo contenga delle melodie.”

Lo stesso nome del disco, Australasia, sembra voler richiamare alla mente un paesaggio, uno scenario naturale. Che tipo di ambientazioni volete evocare?
Vorremmo che la gente pensasse ad altro mentre ci ascolta, che si lasciasse andare a una sorta di fuga, se vogliamo chiamarla così. Non vogliamo evocare tanto paesaggi oscuri, quanto meravigliosi e irreali.

Il suono è liquido e scorrevole, denso, trascinante. C'è una precisa intenzione psichedelica dietro?
Decisamente, o almeno lo speriamo. Non avere un cantante né dei testi ci permette di concentrarci esclusivamente sulla musica e non scrivere canzoni nel classico schema strofa/ritornello/strofa. Ci permette di sperimentare con la struttura dei pezzi. Speriamo che questo aiuti anche l'ascoltatore e concentrarsi su quello che sta ascoltando senza dover dedicare la propria attenzione a un cantante perdendo tempo a chiedersi se gli piaccia o meno. Questo è un effetto che le droghe possono favorire, ma noi scriviamo la maggior parte dei pezzi completamente sobri.

Paragonare i Pelican ad un gruppo come gli Isis può certamente essere utile per associarvi -da nuova entità musicale- a qualcosa di più ampiamente conosciuto. Tuttavia crediamo ci sia una precisa differenza: laddove gli Isis sono più concentrati su un suono vicino ad un drone, ripetitivo e, di nuovo, liquido, i Pelican sembrano avere maggiormente a cuore lo sviluppo lineare dei pezzi. Non si tratta tanto di raggiungere l'apice di un pezzo per poi mantenerlo per stordire l'ascoltatore, quanto di dar vita a un processo descrittivo. Certamente alcune parti vengono ripetute, la lo scorrere sembra lineare più che circolare, quasi cinematico.
Gli Isis sono uno dei nostri gruppi attivi preferiti: dico “attivi”perchè ci piace anche molta musica non propriamente recente. Credo che l'unico motivo per il quale gli Isis posson essere considerati più ripetitivi di noi è il fatto che abbiano delle parti vocali. Tornare su un passaggio già suonato all'interno di una canzone crea più spazio per inserire delle parti cantate. Credo che sarebbe difficile inserirle in molti dei nostri pezzi a causa della struttura stessa e degli arrangiamenti. Drought è l'esempio perfetto di una progressione lineare: comincia lenta e il momentum cresce in modo graduale fino a raggiungere un apice. Un altro aggettivo valido per descrivere alcune delle nostre canzoni è “cinematico”, ma anche noi come gli Isis miriamo a raggiungere il picco in ognuna di esse.

Pensate ci sia una corrispondenza fra quello che state facendo come Pelican e l'urgenza originale dell'hardcore. Oppure preferite essere considerati più vicini al metal, all'interno di un concetto di pesantezza assoluta?
Per me l'hardcore è sempre stato rappresentato da gruppi che volevano fare qualcosa di diverso, superare i limiti e suonare musica estrema. La stessa cosa vale per il metal e credo che i due generi siano molti vicini a livello di suono e strutture. Siamo cresciuti ascoltando hardcore, punk, rock e metal e tutti hanno lasciato delle tracce in quello che scriviamo ora. Non vorrei che fossimo considerati un gruppo strettamente metal o hardcore perchè non voglio essere infilato a forza in un genere musicale. Chicago, da questo punto di vista, è stato un suolo fertile sul quale crescere, perchè ha moltissime scene diverse e un pubblico aperto. Ai nostri concerti viene gente appassionata di tutti i generi musicali, questa è una cosa che ci piace. Allo stesso modo ci piace suonare un giorno coi Khanate e quello successivo coi Denali: due gruppi che sono agli antipodi come suono, eppure i loro fan hanno trovato in noi qualcosa che potesse piacergli. Tornando a quello che chiedevi – i Pelican cercano di spingersi in direzioni nuove e di abbattere delle barriere, che è quello che metal e hardcore hanno sempre fatto.

Perchè il titolo Australasia? E' un luogo inventato? Semplicemente una parola che suona bene?
Bryan, il nostro bassista, ha passato tre settimane in Australia appena prima che finissimo di scrivere questo album. L'ultimo pezzo, la title track, è stato terminato la settimana in cui è partito. Non avendo parti vocali e quindi testi a volte è difficile dare i titoli ai brani perchè non esiste un tema dominante. Insomma, è tornato con un sacco di foto magnifiche e abbiamo voluto inserirle nel layout: le abbiamo mandate ad Aaron Turner (chitarrista degli Isis, proprietario della Hydrahead e grafico apprezzato, N.d.A.) che ha realizzato l'artwork. Il risultato è stata un'atmosfera soprannaturale e visionaria. Di conseguenza volevamo che anche il nome suonasse più esotico di un semplice “Australia”. Australasia è il nome che i geologi hanno dato alla regione che comprendeva le odierne Australia e Asia, prima che i movimenti della crosta terrestre portassero alla formazione dei due continenti. Il risultato finale è fantastico.
Quali sono i gruppi ai quali siete felici di essere accostati?
La lista è lunghissima e i nomi tirati in ballo cambieranno profondamente da ascoltatore ad ascoltatore. In ogni caso una buona e abbondante selezione di essi comprende Mogwai, Isis, Godflesh, Old Man Gloom, Neurosis, Earth, Godspeed You Black Emperor, Sleep, My Bloody Valentine, Lungfish, Voivod, Helmet, Quicksand, Sunny Day Real Estate. A volte veniamo paragonati a gruppi in maniera veramente sorprendente, ma queste sono tutte band che amiamo ed è per noi un onore essere avvicinati ad esse.

Certamente i Mogwai sono un paragone che ha particolarmente senso, ma è quasi una sorpresa, dato che sono decisamente molto più popolari in Europa che non negli Stati Uniti. Se azzardassi una vicinanza di alcuni passaggi dei Pelican al suono paludoso e sudista dei Down? Penso a un pezzo come Drought.
I Down non sono un gruppo che amiamo particolarmente o al quale credo assomigliamo, ma credo di capire cosa intendi. Per quanto riguarda i Mogwai abbiamo in comune molte cose: la reiterazione, il volume, alcune melodie. Credo chei Pelican stiano semplicemente cercando di riposizionare il tutto all'interno di un suono più pesante.


LIGHTNING BOLT
(Rumore Aprile 2004)


Con una progressione artistica fulminante, i Lightning Bolt hanno portato un noise confuso e magmatico ad un'intensità fisica/atletica di natura “storta” e assolutamente unica: Wonderful Rainbow (Load Records) è un disco di un'intensità mentale e fisica sconvolgenti. Da una parte un forsennato picchiare di tamburi, dall'altro un basso e due ampli in distorsione deragliante e marcia: il risultato è un continuo contorcersi e sgranarsi della materia musicale. L'ascolto a volume apocalittico è parte integrante del gioco: “Credo che tutto il rumore che facciamo quando suoniamo dal vivo sia dovuto sostanzialmente ad una competizione in atto fra di noi. Ognuno di noi due crede di avere qualcosa da “dire” più dell'altro. Tutto quanto si impasta insieme e non si capisce più nulla. E' una cosa che fa male alle orecchie. Ormai suoniamo a questo volume da anni, e ci siamo abituati ad avere una certa presenza fisica della musica nell'aria. Una volta ho sentito J Mascis dire che poteva sentire una sorta di vento alle proprie spalle mentre suonava. Quando c'è tanto rumore sembra che tutto si stia per fondere, tutto quanto ha lo stesso suono e la strumentazione è sull'orlo della distruzione. In quel momento sembra che tutto stia per sciogliersi e non ti puoi nascondere? Puoi nasconderti dal volume? Non puoi fuggire.” I vostri concerti, tutti rigorosamente suonati “giù dal palco”, sembrano essere particolarmente veloci a sfuggire di mano, con gente che si riversa sopra di voi che suonate. Il DVD Power Of Salad ne mostra alcuni episodi praticamente da Real Tv. “C'è soprattutto il problema delle schegge di bacchetta che volano in giro. Un po' di sangue qui e là, qualche livido ma nessuno è mai svenuto e nessuno s'è mai rotto niente. Sembra che ci stia andando bene. La gente si diverte.” A questo volume insistere in brani ossessivi sembra portare la gente, ma anche voi che suonate, in uno stato di trance nel quale l'istinto prende il sopravvento: non c'è una disciplina da mantenere, ma dei livelli successivi d'intensità da raggiungere, magari modulazioni minime intorno a un pattern ripetuto che “salgono” fino a raggiungere un picco. “Suonare molto mi ha insegnato quante possibilità si hanno di insistere su una stessa tavolozza di suoni. Bisogna essere ostinati, ma è la propria capacità espressiva a doversi distinguere. E' anche per questo che il nostro suono non è basato particolarmente sui riff: ovviamente ci sono dei pattern che ri ripetono, ma non si può dire che siano dei riff veri e propri. Su Wonderful Rainbow ci siamo avvicinati più che in precedenza a delle strutture “rock”, ma non è detto che insisteremo necessariamente su questa strada: ci sono ancora un sacco di frequenze da esplorare e un sacco di distorsione, rumore e volume attraverso i quali convogliarle.” Il gruppo ha recentemente ricevuto attenzioni addirittura dai Sonic Youth e soprattutto ha risposto alla volontà precisa dei Mogwai, che hanno invitato proprio i Lightning Bolt (oltre ai Converge) come ospiti alla propria serata al festival All Tomorrow's Parties in Inghilterra. C'è da sperare che l'esecuzione e l'energia fulminanti di cui sono capaci “passi” anche presso un tipo di pubblico meno underground e più interessato a forme espressive trasversali senza pregiudizi particolari. Questa è musica preziosa.
THE FLYING LUTTENBACHERS
(Rumore Aprile 2004)



Weasel Walter, corpo e mente dietro The Flying Luttenbachers, è un personaggio che è dovuto e giusto considerare, oltre che come culto, come musicista capace di convogliare in maniera certamente difficile ma altrettanto lucida le proprie idee in una forma musicale. Interrogato specificamente per questa analisi, si è dimostrato interlocutore ideale nonché estremamente esauriente a riguardo della propria creatività musicale, tant'è che, con in mente una sorta di parallelo con lo scorrere spigoloso dei suoi dischi, abbiamo preferito lasciar esprimere in una sorta di flusso di coscienza controllato, senza interruazioni né commenti. “I Flying Luttenbachers non riguardano il conformarsi a idiomi o tratti stilistici preesistenti, piuttosto sono il risultato di continue rielaborazioni che orbitano attorno a idee che ho cominciato a sviluppare negli anni '80. Velocità, tensione e ferocia sono aspetti fondamentali, ma richiedo anche un “livello minimo di disperazione” che sia comune ai membri presenti nel gruppo oltre a me. Questa intensità di base si manifesta sia come impatto fisico del suono sia come complessità del risultato finale: l'attitudine intenzionale di mantenere un'estrema urgenza attraverso tutti i momenti di musica creati dai Flying Luttenbachers garantisce l'impossibilità di rimanere fermi troppo a lungo e diventare auocompiacenti. Progredire non è un processo facile o sicuro, ma non bisogna avere paura di nulla. Il timbro degli strumenti dev'essere tagliente e aggressivo, ogni intervento melodico deve suonare discordante, fastidioso, serrato. Ho sempre fermamente creduto che la prima impressione sia fondamentale nell'ascolto della musica e ho sempre cercato di colpire duramente l'ascoltatore dal primo istante. Caricare l'introduzione di un pezzo di tante informazioni è un metodo eccellente per disorientare chi ascolta e far piazza pulita di qualsivoglia aspettativa. Personalmente amo lo shock provocato da cambiamenti improvvisi nella struttura, nel tempo, nel timbro o nella densità di un pezzo: nessun cambio, esplosione o interruzione può essere definito eccessivo. Ultimamente ho cominciato a contemplare l'idea di inserire trasformazioni graduali all'interno della mia musica, ma questi sono stati finora i tratti salienti di ciò che ho scritto. Il livello di controllo da mantenere è una cosa estremamente soggettiva, i Flying Luttenbachers sono il progetto più ordinato e disciplinato al quale abbia preso parte, soprattutto perchè voglio che siano l'espressione univoca di una mia particolare visione musicale, anche se all'interno di essa è compreso un certo livello di improvvisazione “libera”. Ma “free” non è ciò che voglio essere, io voglio convogliare le mie idee in una composizione che possa incarnarle completamente per la propria intera durata.. In alcuni altri gruppi con cui suono (XBXRX, Goof Ice, To Live And Shave In LA 2) c'è un livello di chaos maggiore, ma perchè il concetto di quelle band risiede nella libera interazione fra i musicisti: in questi gruppi l'entropia è un elemento fondante che viene preso in considerazione dal momento stesso in cui nascono, ma per i Flying Luttenbachers questo non vale: non m'interessa e non è quello che cerco. Quanto al ragguingimento di un limite fisico durante l'esecuzione musicale, penso che la perdita del controllo equivalga ad una disfatta. A nessuno piace vedere la forza dietro un gruppo esaurisi, o almeno a me non piace: non è solo l'intensità a dare valore a qualcosa: c'è gente che suona più velocemente di me e c'è gente che è in grado di mettere in piedi tour de force più faticosi dei miei, ma questi attributi presi isolatamente sono completamente inutili.”
THE MARS VOLTA
MOTHERSHIP LANDING
Il punk incontra il prog
(Rumore Aprile 2005)



La storia dei Mars Volta, particolarmente nel modo in cui ci preme raccontarla, riassumerla e interpretarla, comincia oltre quindici anni fa, all'alba degli At The Drive-In. Potrà sembrare impossibile unire il punk duro e puro -e pure ingenuo- di Acrobatic Tenement (esordio del Febbraio 1996) con le mastodontiche movenze progressive di Frances The Mute, e senza ascoltare i passaggi intermedi ponderandone tempi e modi l'impresa è in effetti disperata. Alla vigilia della pubblicazione del secondo album a nome The Mars Volta, intitolato Frances The Mute, Omar Rodriguez Lopez, chitarrista alle redini di entrambi i gruppi e principale figura pubblica, è un interlocutore che sceglie di non schernirsi davanti alla parola “progressive”: bruttissima, cacofonica, offensiva, antipatica e soprattutto tremendamente fuori moda. E' ovviamente ben conscio che il significato che assume in questa sede è ben più ampio rispetto al consueto, particolarmente se in relazione a una delle attività parallele dello stesso Omar, ovvero la direzione artistica dell'etichetta Gold Standard Laboratories. Se dunque applicato ai Mars Volta il termine rappresenta un'abbreviazione per descrivere un determinato modo, particolarmente complesso e stratificato, di fare musica rock, associato alla piccola, ma coraggiosa e lungimirante etichetta diventa una semplice parolina di quattro lettere, corta corta e non certo capace di contenere l'enorme e disparata creatività messa in gioco. Ma come ci sono finiti i punk a suonare prog rock? Il punk non è celebrato da anni come l'antitesi e addirittura il boia del prog? L'entrata a gamba tesa della brutalità lineare e cinica sulle caviglie dell'esibizione tecnica e dell'affabulazione insensata ha dato a tutti molte soddisfazioni, i secchioni venivano presi a calci e costretti a levarsi di mezzo, c'era finalmente spazio per tutti e ognuno poteva dire/suonare la sua. Ma questo succedeva quasi trent'anni orsono, e la sostanza che si è andata a creare dopo la prima devastante ondata di nichilismo, attraverso il post punk e l'hardcore, ha sempre celebrato l'individualità cocciuta e la capacità di infrangere le regole come aspetti fondamentali. E dunque: i Mars Volta AD 2005 non sovvertono forse le norme che vorrebbero (ancora!) il punk fermo a tre accordi e insulti ai poliziotti? Non è forse parte integrante dello “spirito punk” tirare dritto e fottersene per arrivare a creare ciò che si vuole? Frances The Mute è chiaramente un disco che va ascoltato molto, interpretato e interrogato, ma al cuore di esso si trova un'altra cosa che non si può che definire punk: una critica spietata e visionaria alla società di oggi. La forma è molto cambiata, è più ricca, sfaccettata e non fa più leva sull'immediatezza, ma anche il mondo è cambiato: le minacce sono reali ma vengono mascherate, la loro molteplicità rende difficile individuarne una per debellarla. Il pericolo per la vita sta negli elementi medesimi che vanno a connotarla, e nessuno sembra accorgersene più. Non si può fuggire da tutto e nessun luogo, nemmeno della mente, è sicuro fino in fondo. Tutti abbiamo qualcosa da nascondere e la coerenza totale diventa un lusso. Con Omar A. Rodriguez-Lopez cerchiamo, strato dopo strato, di capire come i Mars Volta abbiano dipinto la propria attuale visione del mondo dentro Frances The Mute, perchè di questo si tratta. Innanzitutto si sa ormai che il brano che dà titolo all'album, misteriosamente, non vi comparirà. Verrà pubblicato separatamente, forse solamente in vinile, e funzionerà da “decoder track” per l'intero corpus dell'album. Mossa molto originale, ma pensandoci non è forse vero che ogni libro ha il proprio indice? In ogni caso, perchè? Per cominciare non ci sarebbe nemmeno stata sull'album. Dura settantasetta minuti e a meno di farlo doppio, cosa che volevamo evitare, non ci si poteva mettere più nulla. Quando l'album sarà disponibile ci si accorgerà che la presenza all'interno del disco sarebbe stata di troppo. La sequenza dei brani posta in questo modo fa svolgere una storia che ha una propria armonia interna e che può essere compresa senza aver avuto esperienza del brano decoder. Esso è la genesi di tutto, il punto dal quale l'album prende il via, ma non è strettamente necessario per ascoltarlo o interpretarlo.

Qual è dunque il suo ruolo?
Ascoltando l'intero Frances The Mute, title track compresa, si trovano le risposte a molte più domande. Una serie intera di punti trovano una soluzione o un'interpretazione. Il rapporto è uguale a quello fra un figlio e i suoi genitori. Io posso conoscere bene una persona, ma vedere i suoi genitori mi renderà disponibile un'intera e ulteriore serie di riferimenti e rimandi che mi possono aiutare a interpretarne meglio emozioni, idee e stati d'animo. Sono le radici.

Lungo tutto lo scorrere del disco ci sono riferimenti continui a un rapporto madre/figlio, c'è l'assenza di un padre (The Widow), ci sono riferimenti oscuri alla nascita (“Plant a nail in the navel string”), al ventre materno (“Will they feed us in the womb?”), ai gemelli (“Feed US in the womb”, Cassandra Gemini), all'aborto (“An abortion that survived”), al concepimento e allo Spirito Santo (però the ghost isn't holy anymore...), alla sofferenza che la vita in arrivo potrà portare. Non dev'essere a questo punto casuale: Frances è quindi una madre? E' di questo che stiamo parlando?
Questo è l'esatto punto focale del disco, la verità ultima che si dischiude dopo ogni strato e interpretazione di esso. La madre è l'origine di tutto, è l'essenza stessa dell'esperienza della vita e della morte. Tutte le cose che hai detto e che sono nel disco concorrono a formare il quadro di questa esperienza. La madre è il nostro legame più forte, l'unico che ci può aiutare a capire l'essenza stessa della vita e di noi stessi. E' la madre che genera la vita, è la madre che la veicola e la fa crescere. Tutto nel disco è collegato, ma è un concept molto differente da quello del primo disco. Non è una storia lineare, con un inizio e una fine. E' una serie di immagini.

Ma qual è il rapporto effettivo con la realtà? Quanto la realtà interviene nella creazione di questo mondo/quadro?
C'è un rapporto strettissimo con gli ultimi due anni di vita di questo gruppo, la perdita del nostro amico Jeremy, i posti che abbiamo visto e alcune esperienze fatte, l'orribile politica americana che imperversa in tutto il mondo. Tutto questo riassume la nostra vita recente e la parte più grande di tutto questo è la madre. E' il legame di sangue e la radice, la chiave per capire questioni psicologiche che sfuggono alla nostra razionalità e conoscenza di se stessi. Noi ci possiamo ribellare contro i nostri genitori. La figlia di Bush si può ribellare contro suo padre e la sua politica, ma ne avrà sempre i geni, ne avrà il sangue. E' un pensiero molto oscuro, spaventoso quasi. Ma è inevitabile che sia così, c'è un cordone ombelicale che ci lega alla nostra discendenza.

E' significativo che l'album si apra e chiuda con lo stesso tema, ovviamente.
Quando dobbiamo ancora nascere siamo vicini alle nostre radici, tocchiamo le nostre stesse origini. Quando siamo bambini siamo vicino a nostra madre, ma crescendo ci allontaniamo sempre di più dalla nostra vera origine fino quasi a dimenticarla. Ma quando il momento della nostra morte si avvicina, ritorniamo all'origine di noi stessi, ritorniamo alla purezza dell'inizio. L'apertura e la chiusura del disco sono identiche, ma l'inizio ha un suono distante, ovattato, mentre il finale ha chiarezza e volume, è un finale forte, vibrante.

Tutto Frances The Mute è permeato da un alone pessimista, una sorta di desiderio di non essere mai nati. Ci sono riferimenti a una vita che non vale la pena di essere vissuta (“No there’s no light, no there’s no time, You ain’t got nothing, your life was just a lie”), all'aborto. Addirittura c'è quasi un anelito ad esso. E' questa il paradosso a cui ci spinge la nostra vita?
Non è sempre così, fortunatamente. Ma chiunque di noi ha momenti in cui non si sente in grado di farcela. Dei momenti di pessimismo nero dai quali sembra impossibile uscire. Ce li ha anche chi è fortunato e vive una buona vita, io sono il primo di essi. A volte bisogna rilasciare queste sensazioni estremamente negative, bisogna lasciarle fluire al di fuori.. Ma non è questa la somma di tutto per fortuna.
Il nome Frances da dove arriva? In rete giravano notizie secondo le quali sarebbe stata Santa Francesca di Trastevere, ma non sembra ci siano tracce precise di questo nell'album.
Il nome Frances è stato scelto perchè può essere sia un nome maschile che un nome femminile. Nel corso del disco si scopre che è molto più probabilmente femminile, ma all'inizio non si può sapere.

Certo che è una donna. Rimane anche vedova...
Esatto. The Widow parla di questo ed è l'unica canzone abbastanza corta per farci un video, che ho diretto io.

Ma anche qui c'è un'ambiguità. Il ritornello insiste su “I'll never sleep alone”, ma cosa significa? Di nuovo, è aperto a due interpretazioni quasi opposte.
E' corretto anche questo. Dal punto di vista della vedova, potranno esserci solitudine e dolore, ma è qui che entra in gioco il figlio. Il figlio diventa come il padre. Da un punto di vista assolutamente tradizionalistico e simbolico, la madre è colei che si prende cura dei figli e che li nutre. Il padre, per un maschio soprattutto, è un esempio da seguire. A un livello successivo c'è poi la presa di coscienza di essere rimasto senza un punto di riferimento, ma di averne un altro inamovibile. A un livello ancora successivo c'è una sorta di complesso d'Edipo, addirittura.

Passando ad un'analisi riguardante il piano strettamente musicale (ammesso che sia possibile scinderlo anche solo per un momento da quello lirico/concettuale) è quasi ovvio considerare che Frances The Mute, ad un livello puramente superficiale, funzioni sostanzialmente alternando momenti “fitti” a parti rarefatte, groove rock ipercinetici che fanno da picco ed esplorazioni ambientali più o meno rumorose tengono insieme il discorso e legano le parti. Queste possono funzionare sostanzialmente da pause o da divagazioni di sapore psichedelico, ma mantengono un ruolo ben preciso: quello di servire da magma ribollente di idee e immagini. Tuttavia, nell'incredibile complessità e stratificazione, i momenti più propriamente “rock” spiccano per coesione, dinamismo e per una scioltezza incredibile se relazionata all'evidente difficoltà d'esecuzione del materiale. Sembra impossibile che non siano state provate e riprovate allo sfinimento, eppure mantengono una spontaneità e un istinto inattaccabili.
Questo è il nostro livello di conoscenza l'uno dell'altro, abbiamo delle linee guida per la nostra musica ma ogni deviazione che uno sceglie di fare sarà subito seguita da una reazione pronta e adeguata di tutti gli altri.

Ma com'è stato effettivamente realizzato Frances The Mute? Tu ne sei il produttore e più di chiunque altro conoscerai il meccanismo che l'ha generato.
Quello che hai detto prima sta sostanzialmente a significare che ho fatto un buon lavoro. Tutto è stato realizzato in molti luoghi diversi. E' il frutto di un anno intero speso in tour insieme, a contatto strettissimo ogni giorno, prima e dopo la morte di Jeremy. Ci ha portato sempre più vicini gli uni agli altri e ha instaurato una sorta di relazione psichica fra tutti noi. Ho registrato tutte le parti separatamente, con un musicista alla volta. In alcune occasioni chi stava suonando non aveva ascoltato prima l'accompagnamento. Praticamente improvvisazione che poi veniva adattata al pezzo vero e proprio.

Sono davvero stupito. Non suona per niente così.
Era mia ferma intenzione che il disco suonasse imprevedibile, in costante cambiamento, con diverse parti assemblate secondo un principio che rendesse lo scorrere pieno di sorprese. Credo ci siamo riusciti in maniera diversa per ogni parte che abbiamo inserito nell'album.

Gli At The Drive-In sono stati un gruppo profondamente “punk”. Come i Mars Volta, anch'essi prima nella testa che non nelle corde. Anche dopo la licenza major che ha portato al successo Relationship Of Command hanno sempre considerato fondamentale avere il controllo di tutto ciò che riguardava il gruppo. Le pagine di questo stesso giornale riportanono di alcuni problemi con chi, presso l'antica Videomusic, voleva portare in video per un'intervista solo Omar e Cedric. La musica e i testi targati Mars Volta sono invece molto meno diretti, c'è molto “intelletto” dietro, una lunga e accurata costruzione di un mondo che, alla fine di tutto, non si adegua a nessuna particolare regola commerciale. Qual è l'origine di questa progressione verso il prog rock?
E' stata un'evoluzione musicale completamente naturale, per quel che mi riguarda. Quello che facciamo è l'essenza stessa del punk. Il punk non si deve preoccupare della società che lo circonda e non deve badare a regole poste da altri. Io ho sviluppato questo percorso e secondo questa etica che ho sempre seguito lo ritengo “punk”. E' un modo di pensare prima che di suonare, e racchiude il non lasciarsi inscatolare, il tirare avanti dritto quando ti danno contro e mandare tutto all'aria quando ti vogliono costretto a ripetere coattamente la stessa cosa. Con i Mars Volta abbiamo avuto l'occasione di entrare più a fondo nel nostro trip, di rendere più grandi alcuni elementi della nostra visione e descriverli come meglio crediamo. Gli At The Drive-In avevano un'energia enorme. Con i Mars Volta volevamo recuperare quell'energia e trasformarla in pensiero puro. In idee, immagini, storie.